Buddhismo
La sofferenza come via di liberazione
di Patrizia Micoli
Il termine “Buddhismo” abbraccia una grande varietà di forme di pratica religiosa; tutte hanno come fonte di ispirazione Siddhartha Gautama che visse e insegnò nell’India del nord circa 2500 anni fa e che storicamente divenne noto con l’appellativo di Buddha, ossia il Risvegliato, un uomo che ha conseguito una profonda saggezza grazie ai propri sforzi.
Dopo una giovinezza passata negli agi e nel benessere a 29 anni sentì l’esigenza di ricercare se fosse possibile una felicità duratura che potesse per sempre riempire il suo cuore, rasserenando la sua mente.
La tradizione narra che, mentre passeggiava fuori dell’area del suo palazzo fu turbato profondamente dall’incontro casuale con un vecchio, un malato, un cadavere ed in seguito a ciò iniziò a porsi delle domande sulla propria vita. Fu però da un successivo incontro con un asceta errante che venne ispirato a rinunciare alla vita sino a quel momento condotta e a decidere di dedicarsi completamente alla ricerca spirituale. Studiò e praticò per sei anni profonde tecniche meditative e forme di rigoroso ascetismo, arrivando alla comprensione che, per raggiungere la meta (trovare la via che può guarire la sofferenza degli esseri viventi), avrebbe dovuto seguire una “via di mezzo”, un sentiero tra gli estremi della eccessiva tolleranza e della totale privazione. E fu durante la notte del Risveglio che comprese, seduto in profonda meditazione, mentre la sua saggezza si faceva sempre più profonda e penetrante, quelle che vengono chiamate “le Quattro Nobili Verità” (1. c’è la sofferenza (dukkha), 2. ci sono le cause della sofferenza; 3. c’è la fine della sofferenza; 4. c’è la via che porta alla fine della sofferenza.)
Deciso a donare il frutto della sua ricerca spirituale per alleviare la sofferenza degli infiniti esseri, il Buddha trascorse i successivi quarantacinque anni a insegnare il modo per realizzare la sua medesima libertà del cuore, insistendo sulla necessità per ognuno di prendere su di sé la responsabilità della propria personale pratica.
In particolare analizzò la malattia che affligge e colpisce tutti gli esseri viventi, identificandola con la nascita, la vecchiaia, la morte, la separazione daciò che si ama, il non ottenere ciò che si desidera. Egli inoltre affermò inoltre che ogni formazione mentale su cui si viene a costruire un senso dell’io è sofferenza. La sua analisi continuò riconoscendo la causa della malattia nel desiderio che degenera in attaccamento, ed infine indicò come possibilità di cura la pratica spirituale da lui insegnata, che rende liberi da questo ciclo di dolore. Comprese infatti che un cuore e una mente liberi da attaccamenti sono un cuore e una mente che non hanno ragioni di ansie, paure, dubbi e possono aprirsi a vedere le cose così come sono. Fondamentale nel Buddhismo è la legge del karma, ovvero la legge di causa-effetto per cui l’intenzionalità dei nostri pensieri, parole, azioni dà frutto nel corso dell’esistenza, determinando le condizioni per la nostra felicità o per il nostro disagio. Diventa così decisivo il momento presente perché offre l’occasione di scegliere una condotta improntata alla generosità, all’etica, al raccoglimento mentale in modo da poter sviluppare la capacità di indirizzare la propria vita verso il benessere nostro e altrui. Ed è con l’accettazione del “qui e ora” e nella consapevolezza fiduciosa di questa possibilità di sviluppo, che abbiamo un’opportunità di trovare uno spazio nella mente e nel cuore per comprendere veramente gli eventi della vita.
Secondo l’insegnamento del Buddha, il quale fu spesso definito “grande medico” per la sua compasssione e abilità nell’alleviare sofferenza, un valido aiuto in questo cammino è imparare a vedere nei fenomeni fisici e mentali delle caratteristiche comuni a tutti gli esseri.
Oltre a quella della sofferenza (dukkha), già menzionata nelle Quattro Nobili Verità, abbiamo la caratteristica dell’impermanenza (anicca) per cui tutte le cose condizionate sono soggette al cambiamento, tutto ciò che sorge cessa, tutto ciò che nasce muore.
Se infatti non prestiamo attenzione al cambiamento dei fenomeni, non notiamo neppure che essi esistono in dipendenza l’uno dall’altro ed erroneamente supponiamo che siano nostri e sotto il nostro controllo.
In questo fluire di condizioni inoltre, non possiamo trovare alcuna identificazione con un “io” permanente che sia immutabile; questa è la terza caratteristica, quella del non sé (anatta) la quale conduce a riconoscere che afferrarsi ad un ego, un ruolo, un carattere, a delle idee, delle emozioni, comporterà per noi solo sofferenza nel momento in cui tutto ciò inevitabilmente cambierà.
Da questi brevi riferimenti dottrinali, emerge che il Buddhismo non si centra sulla credenza in un Dio creatore, ma sull’opportunità di tutti gli esseri umani di risvegliare la propria mente alla verità universale e quindi sulla possibilità di liberarsi dalla sofferenza che deriva dal vivere nell’illusione.
L’insegnamento del Buddha storico, Shakyamuni, indica la via a tutti coloro che hanno questa aspirazione al risveglio, il che implica una precisa responsabilizzazione della persona che può discernere ciò che è o non è salutare e, in base a questo, fare le proprie scelte.
Molte sono le scuole buddhiste che si sono sviluppate dal suo insegnamento e i bisogni spirituali possono variare in accordo con le diverse tradizioni. A grandi linee, tali scuole si possono riassumere in tre principali correnti:
- Theravada (L’insegnamento degli anziani) tuttora fiorente nello Sri Lanka, in Birmania e in Thailandia;
- Mahayana (Grande Veicolo) che abbraccia varie tradizioni sorte in Cina (ad esempio il Chan), in Corea , in Giappone (tra cui lo Zen), in Vietnam, in Tibet;
- Vajrayana (Il Veicolo adamantino) associato principalmente con il Tibet.
Tutte le tradizioni considerano l’essere umano costituito da un corpo formato da pelle, capelli, denti, organi interni, ossa etc. e una mente composta da coscienza sensoriale, sensazioni, percezioni, emozioni, pensieri, la quale è un flusso, un continuum mutevole di esperienze. Tutte le tradizioni concordano nel ritenere che la vita umana sia la cosa più preziosa, per le possibilità di comprensione e di risveglio in essa contenute, ma anche la cosa più difficile da cui distaccarsi. Alcune scuole potrebbero così non approvare la donazione degli organi, altre invece potrebbero
considerarla una auspicabile pratica di generosità, nessuna comunque, in linea di principio, ammette l’eutanasia.
Il processo del morire
La morte è parte del ciclo continuo dell’esistenza (samsara), è il processo di separazione della mente dal corpo, il quale non ha più significato una volta avvenuto il decesso ed espletati i riti.
Dai testi della tradizione tibetana veniamo a conoscere che questo passaggio avviene attraverso fasi progressive di dissoluzione. Alla dissoluzione esterna dei sensi e degli elementi che compongono il corpo (acqua, aria, terra, fuoco, spazio), fa seguito la dissoluzione interna dei diversi stati del pensiero e delle emozioni presenti nella mente, anch’essa composta dalle potenzialità e caratteristiche dei cinque elementi. A queste fasi corrispondono dei segni interni percepiti da colui che “sta lasciando il corpo” e segni esterni, percepibili da coloro che osservano.
Il processo del morire può durare da poche ore fino a vari giorni (negli esseri che hanno conseguito alti gradi di realizzazione spirituale) ed è un tempo in cui la coscienza mantiene comunque un ruolo attivo, anche durante il dissolvimento. Essa, in questa fase, “assorbe”, attira a sé le sue varie funzioni, dalle più grossolane alle più sottili (dai sensi alle saggezze)
le quali una volta assorbite si trasferiranno poi nella nuova nascita. Dopo la morte del corpo, la coscienza, prosegue e prende rinascita sulla base della legge del karma, in questa alternanza di vivere e di morire dell’esistenza ciclica (samsara) in cui siamo tutti coinvolti. Lo stato della mente, in particolare negli ultimi istanti di vita, è quindi ritenuto molto importante perché può influenzare la nuova nascita. Per questa ragione si ritiene preferibile che il paziente, se lo desidera, sia al corrente delle sue effettive condizioni e possa parlare con l’equipe medica. Egli così potrà
scegliere l’eventuale riduzione o la sospensione di farmaci sedanti in modo da conservare la lucidità e la consapevolezza nei momenti che lo avvicinano al morire. La meditazione, l’intenzione altruistica e il lavoro con la propria mente, ma anche la familiarità con il pensiero della transitorietà di tutte le cose costituiscono le vie di un cammino spirituale che può condurre a vivere il tempo della morte in uno stato della mente chiaro e quieto.
Negli insegnamenti buddhisti, come ricorda Sangye Khadro (Preparazione alla morte e assistenza al morente, Karuna Hospice, Australia) viene detto che “aiutare un’altra persona a morire in uno stato sereno e positivo della mente è uno dei più grandi atti di gentilezza che possiamo offrire”.
Cercare di comprendere i bisogni di un malato, prendersene cura durante il sorgere di emozioni disturbanti come paura, rimpianto, senso di colpa, disperazione, rabbia, attaccamenti a cose e a persone, comporta l’intima disponibilità a sedersi accanto, senza fretta, semplicemente lì, per lui. Vuol dire essere disposti ad un ascolto senza giudizio, intessuto di paziente, saggia compassione, pronti a fare qualunque cosa lo aiuti a essere a proprio agio, in pace, ma anche pienamente consapevoli delle nostre personali emozioni e di come affrontarle.
Solo così il malato potrà essere sostenuto e potrà tenere la mente in uno stato sereno, libera da preoccupazioni, libera, per poter fare la sua pratica spirituale ogni volta che vuole e può. In caso di difficoltà a causa di dolore, stanchezza, confusione, si potrà essere d’aiuto meditando accanto a lui, leggendogli brani d’insegnamenti cari o aiutandolo a trovare un senso alla sofferenza. Vederla come qualcosa di utile potrà essere mezzo per estendere la compassione ad altri esseri, dedicando loro i meriti ossia l’energia delle proprie buone azioni, delle proprie pratiche spirituali, delle virtù espresse durante la vita. Ci si prenderà cura anche del bisogno di un ambiente pacifico, armonioso, lontano da emozioni disturbanti, ove siano palpabili il rispetto e l’attenzione non solo al morente ma anche alle persone che desiderano stargli accanto. Si farà attenzione in particolare nel caso in cui il malato, per evitare di essere toccato da emozioni afflittive che turberebbero la mente durante la morte, non volesse avere accanto familiari in lacrime o troppo loquaci e rumorosi.
Se la persona morente lo desidera, si può richiedere la presenza di amici spirituali o insegnanti che lo aiutino a prendere rifugio nei Tre Gioielli (Buddha, Dharma2, Sangha3), come sostegno fiducioso nelle difficoltà, oppure gli si possono mettere accanto delle foto che lo ispirino.
Sogyal Rinpoche (Il libro tibetano del vivere e del morire, Ed. Ubaldini, pp.212-213) sottolinea come uno dei bisogni fondamentali sia quello del perdonare e dell’essere perdonati e come entrambi possano diventare mezzo per purificare se stessi dal male fatto e come preparazione consapevole al viaggio del morire. Per questo essere aiutati a esprimere rincrescimento per gli errori passati o a rivolgere il perdono verso persone con cui ci sono nodi irrisolti, potrà contribuire al sereno lasciarsi andare nella morte, che alcuni vorranno vivere appoggiati sulla parte destra per assumere la posizione del Buddha morente (posizione del leone).
Meditazione semplice per la persona che muore in stato di coscienza vigile. Chiedere alla persona di visualizzare di fronte a sé qualsiasi figura di Buddha in cui ha fede, vedendola come l’incarnazione di tutte le qualità positive, come la compassione, la gentilezza amorevole, il perdono, la saggezza, l’equanimità. Visualizzare la luce che emana da quella figura e che riempie il suo corpo e la sua mente, purificandoli di tutte le cose negative che ha fatto e pensato affinchè abbia solo pensieri puri.
La mente della persona diventa così unita alla mente del Buddha, completamente pura e buona, potenziale d’illuminazione già presente in ogni essere (Natura di Buddha).
Nel caso la persona non fosse cosciente, si può fare la meditazione per lei, visualizzando la figura del Buddha sopra la testa del morente.
Dopo la morte
Come abbiamo in precedenza scritto, secondo il Buddhismo la cessazione del respiro non è segno di morte avvenuta ma è solo uno degli stadi del processo del morire. Il corpo quindi andrebbe lasciato indisturbato quanto più a lungo possibile finché la coscienza non lo abbia definitivamente lasciato.
Se, per esigenze ospedaliere, durante questo periodo di tempo è necessario toccare il corpo, va toccata (secondo la tradizione tibetana) prima la parte alta della testa (corona) in quanto questo atto stimola la coscienza a partire da quel punto di uscita verso uno stato di rinascita fortunato.
Nel caso fosse presente una persona in grado di fare la pratica del powa (trasferimento della coscienza), la si può invitare a farla, altrimenti è bene dedicare alla persona deceduta qualsiasi preghiera o pratica conosciuta, con cuore aperto, fiducia e compassione, nell’augurio che possa essere libera da sofferenza e avere una buona rinascita. Il corpo potrà in seguito essere bruciato o sepolto secondo i desideri individuali.
“………
Che tutti gli esseri vivano felici e sicuri:
tutti, chiunque essi siano,
deboli e forti, grandi o possenti,
alti, medi o bassi, visibili e non visibili,
vicini e lontani, nati e non nati.
Che tutti gli esseri vivano felici!
Che nessuno inganni l’altro
né lo disprezzi
né con odio o ira desideri il suo male:
Come una madre protegge con la sua vita
suo figlio, il suo unico figlio
così, con cuore aperto, si abbia cura di ogni essere,
irradiando amore sull’universo intero;
in alto verso il cielo in basso verso gli abissi,
in ogni luogo senza limitazioni,
liberi da odio e rancore.
………..”
(Mettā Sutta, Insegnamento sulla gentilezza amorevole, Buddha)