Cristianesimo
Sofferenza e spiritualità
di Padre A. Schnöller, cappuccino, insegnante di meditazione, con la collaborazione di Padre V. Zelinsky, Teologo, Giornalista e Parroco della Comunità Ortodossa di Brescia e del Prof. Paolo Ricca, Pastore della Chiesa Valdese, Roma.
Riflessione a partire dall’esperienza cristiana.
Nel loro cammino spirituale di crescita verso la pienezza dell’essere e della vita, i discepoli di Gesù si lasciano anzitutto ispirare dalla testimonianza del loro Maestro e Signore, che imparò l’obbedienza dalle cose che patì. Anche Pietro, scrivendo alle comunità cristiane dell’Asia Minore che subivano persecuzioni, propone loro come modello Gesù.
1 Pietro 2,20-21: Se voi fate il bene e sopportate con pazienza le sofferenze, allora è una grazia di Dio. Egli vi ha scelti perché vi comportiate come Cristo quando morì per voi. Egli vi ha lasciato un esempio da seguire. L’imitazione di Cristo, tuttavia, non impedì ai discepoli di Gesù d’interrogarsi sul perché della sofferenza e sul senso che erano chiamati a dare ad essa.
In passato, il perché trovava in genere la risposta nel fatto che l’uomo si era allontanato da Dio, introducendo così una profonda disarmonia, il disordine e
la morte nel mondo.
Questo è ciò che afferma il mito della caduta di Adamo, ossia il mito del peccato originale.
Il mondo creato da Dio era libero da sofferenza. La disobbedienza dell’uomo ha introdotto disarmonia e sofferenza nel mondo. La morte è entrata nel mondo a causa del peccato, afferma Paolo; anche se subito dopo precisa, a consolazione dei credenti: né morte né vita potranno mai separarci dall’amore di Dio (Rm 5,12 e 8,38).
Il senso della sofferenza, invece, lo si coglieva – come attestano chiaramente i testi sopra citati – soffermandosi con meditazione sulla testimonianza di Gesù, che è passato attraverso la sofferenza e la morte ed è pervenuto alla pienezza della vita. Questa forma di meditazione generava una grande forza interiore, tale da permettere di vivere gli stessi momenti di sofferenza
con vera pace e gioia interiori.
Proprio in virtù della loro capacità di tenere lo sguardo fisso su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede, questi cristiani, per quanto perseguitati, erano pieni di una gioia grandissima, benché la sofferenza fosse presente in modo molto pesante e massiccio nella loro vita. Il riferimento a Gesù mantiene ancora oggi tutta la sua validità per i cristiani. Il cristiano impara soprattutto
da Gesù a dare un senso alla sofferenza, vivendola, nella misura del possibile, con serenità e amore.
Per quanto riguarda il perché della sofferenza, oggi la risposta che la riflessione teologica ci propone è assai diversa da quella di Paolo. Senza rinnegare l’incidenza distruttiva e mortificante dell’incoscienza, della superficialità, della prepotenza, dello sfruttamento dell’uomo e della natura, dell’egoismo e della menzogna e di ogni forma d’ingiustizia – che costituiscono appunto quel disordine che la Bibbia chiama il peccato – oggi si ritiene, tuttavia, che la sofferenza è un elemento costitutivo dell’universo. Ossia, la creazione non è «imperfetta» perché è decaduta da uno
stato di innocenza originaria.
Lo è per sua natura, fin dal principio. A condurre la riflessione teologica verso questa visione della realtà creata è stato Darwin, anche se Darwin stesso rimase ancorato alla sua visione di fede anglicana, secondo la quale Dio aveva creato, all’inizio, un mondo perfetto.
Dopo Darwin, però, la riflessione teologica, sotto la spinta della dottrina evoluzionistica, si spostò sempre più sull’altro versante, quello che sembrava più coerente con la teoria darwiniana, e che afferma l’imperfezione iniziale della creazione. Secondo questa visione, il creato nasce imperfetto e tende verso la perfezione; il paradiso terrestre si trova non all’inizio, ma alla fine dell’evoluzione dell’universo.
A riguardo di questa visione evolutiva della realtà, la Gaudium et spes – la costituzione pastorale, ultimo documento del Concilio Vaticano II, che non è ancora pienamente recepito, perché molto aperto e, quindi, richiede uno sviluppo che non si può realizzare in soli 41 anni – al n. 5 fa un’affermazione molto importante.
Dice: L’umanità sta passando da una concezione statica della realtà ad una concezione più dinamica ed evolutiva. Questo passaggio susciterà una congerie di problemi, che richiederanno nuove analisi e nuove sintesi. La creazione, dunque, nasce nel segno dell’imperfezione e dell’incompiutezza e cresce verso un traguardo di pienezza definitiva. Essa vive questo sotto la spinta della vita, ossia in virtù dell’azione creatrice di Dio, della forza dello Spirito. In questa visione, ciò che per noi è di somma importanza è il comprendere fino in fondo che l’azione creatrice di Dio, per poter divenire realtà creata, anzitutto richiede di essere accolta, perché solo se accolta può divenire realtà creata, qualità di creatura.
Occorre anche tenere presente il fatto che l’azione creatrice di Dio riguarda non solo le singole persone, ma l’umanità intera. Anzi, l’intero universo. Perché l’intera specie umana e tutto l’universo sono in divenire. Il bene e il male, la salute e la sofferenza, sono certamente anche conseguenza di nostri atteggiamenti personali. Ma non è sempre così.
Tutta la realtà creata vive in un contesto di comunione, di relazione e di interdipendenza, sia nel bene che nel male.
L’altra verità che non possiamo mai scordare, ma che richiede di essere profondamente compresa, è la seguente: perché l’azione di Dio possa esprimersi sul piano della specie umana e anche dell’intero universo, si richiede tempo da parte della creatura. Noi non possiamo accogliere l’azione di Dio, l’azione della vita, in un istante, subito compiutamente. Siamo creature in divenire e non abbiamo gli spazi interiori per farlo. Occorre del tempo. Perché noi, in quanto creature, siamo tempo.
Cioè: accogliamo la forza della vita a piccoli frammenti, in una lunga successione di esperienze. In questo senso l’azione di Dio non è un’azione che si sovrappone a quella delle creature, che si aggiunge dall’esterno alla realtà della natura. E’ dal di dentro di noi che la forza della vita si esprime. E’ dal di dentro della realtà che diventa struttura della creatura, che diventa componente del processo di crescita della persona.
Questo processo richiede certamente apertura e adesione, ma anche tempo, serenità e pazienza. E’ in questa prospettiva che la nostra attitudine d’accoglienza, di silenzio e di interiorizzazione è una condizione fondamentale. Essa è destinata ad accompagnaci lungo tutto l’arco della nostra esistenza, ma deve essere alimentata e nutrita soprattutto nei momenti di malattia e di sofferenza, affinchè nonostante il momento di difficoltà che attraversiamo, ci manteniamo aperti alla forza guaritrice della vita. In ogni caso, perché la forza della vita, la forza della parola creatrice possa fiorire in noi in qualità nuove, esprimersi con modalità inedite, l’accoglienza, il silenzio, l’interiorizzazione sono indispensabili.
Il punto nevralgico è che, nella salute e nella malattia, i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre azioni possono assecondare ed esprimere la forza della vita, come possono invece decadere, inquinarsi, intorbidarsi, impedire all’azione della vita di esprimersi in noi. Questo è il dramma della nostra esistenza, che noi cioè possiamo inquinare le forze della vita, impedire che si esprimano.
Ma se ci apriamo alla forza della vita, allora essa diventa in noi qualità, diventa pensiero, diventa decisione, diventa amore, diventa comprensione, diventa misericordia e, spesso, diventa anche salute. Theilard de Chardin diceva: Dio non fa le cose, ma offre alle cose di farsi.
Questo è il senso della fede in Dio: che esiste cioè una forza del bene, una forza della vita, una verità grande, più grande di noi. In gioco nella nostra esistenza c’è una forza più grande, ma non può esprimersi se non diventando nostro pensiero, nostra decisione, nostra azione.
Questo, ripeto, vale nella salute e nella malattia. Non viene certo da noi la forza della vita. Ci è continuamente offerta. Non siamo noi che possiamo gestirla per conto nostro. Ci è donata. Ma perché si esprima in noi deve diventare nostro pensiero, nostra decisione.
Questo è il senso dell’atteggiamento di silenzio, di accoglienza, di ascolto, di interiorizzazione. Ciò che è in gioco nella nostra vita è infinitamente più grande di noi. Il senso della fede è rimanere aperti a questo «più grande». La fede in Dio è insieme apertura fiduciosa alla sua azione e accoglienza partecipe di essa. Solo questo è. Noi non sappiamo che cosa è Dio.
Ma questo sappiamo: che nella nostra vita è in gioco una verità più grande dei nostri pensieri, un bene più grande del nostro amore, una giustizia più esigente dei nostri progetti, una vita immensamente più ricca della nostra piccola esistenza. E tuttavia, per essere partecipi di questo di più, questo «di più» deve diventare nostro, deve incarnarsi, diventare nostro pensiero, nostra decisione, nostra azione. Aprirsi a questa realtà più grande, accoglierla e interiorizzarla consente di crescere come figli di Dio, ossia di esprimere nella nostra vita quella perfezione. Progressivamente, nel tempo, frammento dopo frammento, passo dopo passo, questa verità più grande ci conduce alla nostra identità definitiva, ad assumere, cioè, il «nome scritto nei cieli», come diceva Gesù. Quella è la nostra realtà definitiva. Quindi, questo è il senso del nostro cammino. Ma questo vale per tutti gli uomini, per tutte le culture. E’ un’esperienza che in tutte le latitudini della terra viene compiuta. In un modo o nell’altro, con nomi diversi, ma questa è l’esperienza.
Per coloro che si riferiscono a Gesù, questa esperienza avviene tenendo fisso lo sguardo su di lui. C’è la lettera gli Ebrei, capitoli 3 e 12. Nel capitolo tre Paolo dice, precisando appunto questa caratteristica del discepolo di Gesù:
Lettera agli Ebrei 3,1: Fratelli miei, miei santi, partecipi di una vocazione celeste, cioè di una chiamata a diventare figli, fissiamo bene lo sguardo in Gesù, l’apostolo e il sommo sacerdote della fede che noi professiamo. Apostolo, cioè colui che ha avviato quest’esperienza e ha annunciato questo traguardo, Sommo sacerdote: perchè Gesù è diventato testimone, amando nella forma suprema della croce. Quando gli uomini lo hanno condotto a morte, ha continuato ad amare e a offrire perdono. Lui ha iniziato questa modalità di fede in Dio che noi continuiamo nel tempo. Il riferimento a Gesù e al suo cammino resta il paradigma del nostro cammino di fede.
E ancora: Lettera agli Ebrei 12,1-2: Teniamo lo sguardo fisso in Gesù: è lui che ci ha aperto la strada della fede e ci condurrà sino alla fine. Egli ha accettato di morire in croce e non ha tenuto conto che era una morte vergognosa, perché pensava alla gioia riservata a lui in cambio di quella sofferenza. Ora egli si trova accanto al trono di Dio.
Prima di concludere, una breve annotazione: quando si afferma che noi, in quanto creature, siamo – per natura o per necessità di cose – imperfetti, occorre subito aggiungere una precisazione. La creazione è imperfetta e tende verso la perfezione, non perché Dio non sia in grado di creare cose perfette. Siamo imperfetti, e la creazione è, fin dal principio, imperfetta, perché Dio non crea «cose», ma «creature», cioè «interlocutori».
Questo vale non solo per la specie umana, ma anche per le realtà del creato. Vale per gli atomi, i quanti, le particelle infinitesimali. Tutte le realtà dell’universo interloquiscono, sia pure con modalità diverse e che noi non conosciamo, con Dio e tra di loro. Le realtà dell’universo non sono «cose», ma “creature viventi”. Per questo l’evoluzione è possibile. Se l’universo fosse una casa o un armadio, Dio li poteva creare perfetti. Ma l’azione creatrice di Dio genera creature. Ora, il concetto stesso di «creatura» implica i concetti di «relazione» e di «interdipendenza». Di conseguenza, la «pienezza», la «perfezione» non possono essere se non la risultante di una collaborazione. Questo è il grande dell’azione creatrice di Dio, ma anche la vera grandezza di tutto ciò che egli, come fonte di tutte le cose, chiama al dono dell’esistenza.
Anche in rapporto al traguardo di pienezza al quale aspiriamo, vale il detto dei padri della chiesa: Dio non si impone, ma si propone. Non dà comandi, ma lancia appelli.
Cito da Evdokimov (teologo ortodosso russo):
La voce di Dio – affermano i padri – è il silenzio, ed esercita una pressione infinitamente discreta, ma irresistibile. Dio non dà ordini, ma lancia appelli: Ascolta, Israele, oppure: Se vuoi essere perfetto (Evdokimov P. N., 61 L’amore folle di Dio, ed. Paoline, Roma 1981, pp.33-34).
Stranamente l’ora della malattia, della prova, preparazione alla conversione e anche della morte, è l’ora in cui l’uomo si trova più predisposto che mai ad aprirsi a questa sconvolgente verità della fede, che è, nel contempo, verità ispirata dalla fede, ossia da quella forza misteriosa che agisce in tutte le cose, ed è il motore di tutta la vita.
E per concludere: secondo la lettera di Giacomo, il servizio fondamentale dei credenti – sia che si tratti del singolo credente o dell’intera comunità – è quello di aiutare chi soffre a mantenersi aperto alla forza della fede, che è anche la forza della vita e dell’azione creatrice di Dio. La vicinanza e la preghiera sono di aiuto a chi soffre.
Per i credenti più convinti sono di grande aiuto la confessione e la comunione. La preghiera e la vicinanza sostengono e favoriscono il processo di guarigione; nei casi più gravi, senza escludere la possibilità di guarigione, sono soprattutto di sostegno, di consolazione e di conforto a chi, cosciente della sua condizione, si prepara a vivere, sostenuto dalla fede fiducia e dall’amore dei fratelli, il difficile passaggio verso dimensioni di esistenza e di vita oscuramente intuite e annunciate, ma anche inesplorate.
Lettera di Giacomo 5,14-15: Se qualcuno di voi è malato, chiami i responsabili della comunità. Essi preghino per lui e lo ungano con olio, pregando il Signore. Questa preghiera, fatta con fede, salverà il malato, e il Signore gli darà sollievo. Inoltre, se il malato avesse commesso dei peccati, saranno perdonati. L’unzione degli infermi è ancora una tradizione sacramentale della Chiesa cattolica. Ai sacerdoti sono anche affidati i momenti del commiato e del lutto, con la celebrazione dei riti del funerale e della commemorazione. Anche per i cristiani di Confessione Ortodossa,
questi passaggi sono importanti: la confessione e la comunione e l’unzione degli infermi, oltre all’osservanza del digiuno nei tempi prescritti. Va detto che l’unzione ortodossa richiederebbe un rito più complesso con la presenza di sette sacerdoti, l’unzione e la lettura del vangelo, se tutto questo è compatibile con l’organizzazione ospedaliera. Una grande discrezione va poi seguita nei confronti di monache, che preferibilmente dovrebbero essere trattate da personale femminile. Il funerale è un rito speciale, in cui il defunto, simboleggiato in un pezzetto di pane, diviene particella del Corpo di Cristo.
Infine il lutto prevede la ripetizione di celebrazioni anche giornaliere per il primo tempo. Si deve tener conto che gli ortodossi non conoscono il Purgatorio e quindi nei primi quaranta giorni dopo la morte, si ritiene che l’anima del defunto debba affrontare delle prove di progressiva purificazione. Per i cristiani di Confessione Protestante la cosa più importante è che il personale sanitario chieda al malato se desidera la visita di un Pastore. A quel punto insieme possono decidere se celebrare la “Cena del Signore” equivalente all’eucaristia o semplicemente effettuare il “colloquio pastorale” in cui il malato può anche parlare della propria vita, come nella confessione, o semplicemente leggere brani del vangelo, recitare i salmi e il Padrenostro.
Nella Carta degli operatori sanitari (Pontificio Consiglio della Pastorale per gli operatori sanitari, 31, 32, 115, Città del Vaticano 1994), si ribadisce che l’accompagnamento spirituale da prestarsi al morente a i suoi familiari costituisce l’appoggio particolare che la comunità cristiana è chiamata ad offrire tramite la preghiera e i sacramenti, perché anche nel morire l’uomo abbia a riconoscersi e volersi come vivente e sia aiutato a dare un significato alla gravità della situazione senza perdere la speranza del cuore.